venerdì 25 dicembre 2009

Tutto quel che c'è da sapere sulla zampogna


Era goffo, lugubre e un po’ da sfigati. Ora è diventato uno degli strumenti più amati in circolazione. Il gran maestro degli zampognari, Ambrogio Sparagna, ci spiega perché

Tu scendi dalle stelle, ed è folla da concerto rock. Accade, da qualche anno, che la zampogna riempia le sale come non mai, forse sull’onda del fascino profuso dalla musica popolare tra le folle euforiche nelle piazze d’agosto (dici “notte della taranta” e immediatamente arriva un coro di “stupendo”, “meraviglioso”, “magico”, “ipnotico”, “irresistibile”). Accade che la zampogna abbia nuovi adepti, nuovi suonatori, nuovi costruttori, una rivista, un festival, alcuni nemici animalisti (per via della pelle di capra usata per la costruzione dello strumento) e soprattutto un maestro di riferimento, Ambrogio Sparagna, etnomusicologo, polistrumentista e direttore dell’Orchestra popolare dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Accade tutto questo, ed è la fine dell’associazione di idee “zampogna uguale castagna uguale strada uguale moneta che cade nel piattino dello zampognaro per gentile offerta del passante” – cioè la prima sequela di pensieri che scorre nella testa quando si sente dire “zampogna” o quando, in un giorno di dicembre, con un carico di pacchi e cartocci in mano, si ode l’antico, tremulo suono per le vie del centro, ingombre di luminarie rosse.

Epperò la zampogna à-la-page di oggi – affiancata da voci note (da Peppe Servillo a Simone Cristicchi), adorata da Giovanni Lindo Ferretti, regina del concerto “La Chiarastella” (diretto da Sparagna, all’Auditorium, il 5 e il 6 gennaio prossimi) – non è diversa dallo strumento che figurava al collo dell’omino del presepe. C’era sempre un omino anonimo con zampogna, nel presepe, e c’era sempre un nonno che diceva di metterlo tra l’ultimo re magio e il primo batuffolo di finta neve attorno alla capanna di Betlemme. Chi era quell’omino?, ci si chiedeva senza avere risposta. Oggi, parlando con Sparagna, l’omino viene restituito, pian piano, alla sua storia.

Veniva dal vicino oriente, in origine, lo zampognaro. Conquistava con le sue note l’antica Roma (dove si suonava l’utriculus, e dove Nerone, pare, si dilettava con zampogne antesignane). Lo zampognaro era il pastore errante che suonando viaggiava dentro se stesso, si smarriva e si ritrovava diverso. Era un contemplatore di stelle e di pensieri, un pifferaio magico della transumanza (la zampogna, pare, richiamava all’ordine il gregge). Era un attore di esercizi spirituali ante-litteram, un mistico camminatore – perché mistico era ed è il suono della zampogna: senza pause, corporeo nella sua creazione e nella sua emissione, adatto ai grandi spazi e alla vera solitudine. Lo zampognaro, al contrario del cantastorie-suonatore di organetto, facilmente suonava isolato. Non è stato da subito il “concertista” da strada del periodo dell’Avvento. Né da subito animava le “novene”, i rituali paraliturgici prenatalizi fatti di canti e zampognari che, tra il sedici e il ventiquattro dicembre, arrivano all’alba davanti alle case dove si fa il presepe. Le novene, come gli zampognari dell’immaginario collettivo, devono la loro fama a Napoli, anzi al Regno di Napoli, dice Ambrogio Sparagna all’interlutore non esperto che non sa distinguere una zampogna da una cornamusa e da una piva. Motivo per cui il maestro, tanto per cominciare, spiega all’interlocutore “che sono tutti aerofoni a sacco”, solo che la cornamusa, più nordica, ha un’unica canna come la sua bergamasca “cugina” (la piva), mentre la zampogna, più meridionale, ne ha due. Al Regno di Napoli ci si arriva subito dopo, perché non furono cornamuse ma un’enorme zampogna gigante, a metà Settecento, a fare da volano alle preghiere cantate dell’avvocato-prelato Alfonso Maria de’ Liguori.

Funzionava così: Alfonso Maria de’ Liguori raggruppava i lazzari in piccoli gruppi di preghiera, le cosiddette “cappelle serotine”, e faceva cantare semplici canzoni spirituali accompagnate dal suono grave della “zampogna gigante”, suono poi cercato e imitato nella composizione delle pastorali per organo. Se i lazzari impararono così i fondamenti del cristianesimo, Alfonso Maria de’ Liguori consegnò alla storia il canto “Tu scendi dalle stelle”, pubblicato e diffuso su tutto il territorio nazionale nella seconda metà del Settecento, tanto da arrivare fino alle scuole medie dell’Italia unita, più di due secoli dopo, storpiato sotto Natale da eserciti di suonatori scadenti, muniti di stridentissimi flauti di plastica (il maestro Sparagna evidentemente non si spaventa, e in questi giorni insegna ai ragazzi della scuola media di Ferentino i primi rudimenti della disciplina “coro con zampogna”).

La zampogna gigante, dal canto suo, è finita in scena negli spettacoli di Sparagna, anche se è alta circa due metri, e la cosa non stupisce chi ha visto almeno una volta il maestro sul palco: che sia taranta o zampogna o “litania” (così si chiamava il lavoro sulla musica sacra fatto da Sparagna con Giovanni Lindo Ferretti), Sparagna sprigiona energia, balza, cammina, si piega, si solleva, scatta, si ripiega, chiude gli occhi, dà con gli occhi il tempo a tutta l’orchestra – e qualsiasi strumento abbia in mano, dall’organetto alla zampogna, fa in modo di rendere leggera, agli occhi altrui, la fatica di suonarlo. Accanto a lui, nelle sue orchestre, ci sono ragazzi curiosi di musica trovati nei paesi e nelle campagne, tolti dai bar, dai muretti e dalla noia, assunti per prova e tenuti per sempre a suonare organetti, zampogne, conchiglie. Poi ci sono gli “alberi di suoni”, musicisti-costruttori. Molti di loro, racconta il maestro, hanno appreso e affinato l’arte della zampogna dal nonno. Altri si sono appassionati pur senza aver un antenato suonatore. Gli zampognari leader dell’orchestra di Sparagna sono molto giovani e molto sperimentatori. Marco Tomassi da Cassino, già ingegnere alla Fiat, cerca di applicare nuovi parametri scientifico-tecnologici al metodo tradizionale di costruzione della zampogna, basato su parametri empirici che non riparano sufficientemente dalla consunzione (prodromo di “stonature” e “opacità”). Antonio Vasta da Barcellona Pozzo di Gotto porta alla zampogna la sperimentazione musicale della natìa Sicilia. Veronica Cianciaruso da Chiasso, Svizzera italiana, ha preso dal padre l’amore per uno strumento che divenne celebre anche nel Canton Ticino grazie a suonatori questuanti in cerca di valuta pregiata.

Messa sotto osservazione da musicisti che ne rilanciano il repertorio pur cercando di renderlo più duttile, la zampogna, dice Ambrogio Sparagna, conserva l’aspetto e il suono che ha in braccio allo zampognaro tipico, l’uomo con il cappello che si aggira per la città prima di Natale, vestito con il costume tradizionale, concentrato e impermeabile al vociare esterno, quasi un tutt’uno con quella spacie di capra che tiene tra le braccia. “Capra che canta”, così i vecchi zampognari chiamavano la zampogna con allusione all’“otre”, la sacca in cui si immette l’aria, fatta appunto di pelle di capra. Gli zampognari, in tempi recenti di revival della zampogna, hanno fatto subito notare agli animalisti che il modello alternativo suggerito dagli animalisti medesimi – in “copertone” di gomma con rivestimento in finta pelle – rischiava, alla lunga, di divenire tossico per il suonatore. E chissà se la precisazione ha infine placato gli animi degli amici della fauna da pascolo.

D’altronde Sparagna è abituato alle contestazioni – gli capitò anche negli anni Settanta, quando, fresco di studi di etnomusicologia, fondò a Roma la prima scuola di musica popolare, attirandosi le critiche dei ribelli antiborghesi duri e puri, convinti che l’industria musicale si dovesse contestare anche ridando la tradizione ai “compagni contadini e operai” (a suon di canti di lotta e di lavoro). Sparagna fece notare che la tradizione c’era, sì, ma era ricca soprattutto di canti legati alla tradizione religiosa. Non che il maestro piacesse al volo a tutti gli uomini di chiesa. A volte, ha detto in un’intervista alla rivista 30 giorni, ha riscontrato “diffidenza”: “La mondanizzazione contagia il ceto ecclesiastico… e così quando si organizza una manifestazione musicale o un concerto si invitano i divi pop-rock del momento…di fatto si fa avvizzire una ricchezza che è frutto della comunità cristiana che ci ha preceduti nei secoli… le zampogne dei pastori sono un organo portatile che ha dato solennità a tante celebrazioni religiose. E poi, mi viene da dire, a Betlemme c’era sì il sublime canto degli angeli ma anche quello umile e gioioso dei poveri pastori… i canti che dirigo, suono e canto in concerto è come se portassero la firma di quei semplici testimoni del fatto del Natale”. Magari poi “si vanno a cercare i gospel”, era la conclusione del maestro, “mentre in casa abbiamo questi tesori inestimabili… E’ come il buon vino paragonato alla Coca Cola, con tutto il rispetto”.

Se gli si chiede perché sia andato a recuperare con tanto incaponimento la zampogna, Ambrogio Sparagna, che è stato anche consulente dell’ex ministro della Cultura Francesco Rutelli per la musica popolare, parla di “sinfonicità” spontanea dello strumento. E’ una citazione, dice, da Hector Berlioz. Pare infatti che il grande musicista, arrivando da studente di musica a Roma, a inizio Ottocento, fosse rimasto talmente colpito dai concerti natalizi degli zampognari da decidere di seguirli per un mese intero, su per le montagne d’Abruzzo, nel gelo dell’inverno, per carpire i segreti delle armonie tramandate da quegli uomini un po’ zingari un po’ “bardi girovaghi”, come li chiamava Giuseppe Gioacchino Belli. “Dopo allegri e piacevoli ritornelli a lungo ripetuti”, scriveva Berlioz, “una preghiera lenta, grave, dal tono tutto patriarcale, viene a terminare degnamente l’ingenua sinfonia. Da vicino il suono è così forte che lo si può appena sopportare, ma a una certa distanza questa singolare orchestra produce un effetto delizioso, commovente, poetico, al quale anche le persone meno suscettibili di provare simili impressioni non possono rimanere insensibili”.

Prima e dopo Berlioz, chissà perché, la zampogna ha avuto fama di strumento goffo e lugubre – i detti popolari pullulano di gambe “grosse come zampogne”, gente che russa “come una zampogna”, “pive nel sacco” che sottolineano delusioni e disillusioni. Lo zampognaro è stato spesso visto come la prova inconfutabile del freddo che avanza in uno scenario grigionero da “Nightmare before Christmas”. La zampogna di Sparagna salta oltre questo immaginario di mestizia, torna diretta all’iconografia del presepe nel deserto del pastore errante e sorride a Gianni Rodari – che da fan dello zampognaro così lo onorò: “Se comandasse lo zampognaro che scende per il viale, sai cosa direbbe il giorno di Natale? ‘Voglio che in ogni casa spunti dal pavimento un albero fiorito di stelle d’oro e d’argento’”.

di Marianna Rizzini

mercoledì 23 dicembre 2009

BUON NATALE !

Non so di chi sia questo dipinto, ma ne vorrei il vostro giudizio.

domenica 20 dicembre 2009

Natale toscano

In Toscana  è molto sentita la tradizione del presepe, la “capannuccia”, come solitamente si usa dire nel linguaggio comune, una sineddoche più che giustificata dato che, la parte più importante del presepe, è proprio la capanna della Natività, con tutta la sua simbologia religiosa e spirituale. L’ambiente circostante è solo un panorama complementare, quasi sempre avulso dalla realtà storico-geografica mediorientale. Il paesaggio è quello tipico dell’ appennino toscano, con molto verde, rappresentato dall’immancabile borraccina e dal muschio, con piccoli casolari, intagliati nel legno, nei colori caratteristici e nelle forme architettoniche peculiari della regione. Sulle aie animali da cortile in gesso ed i classici pagliai, oggi del tutto scomparsi dal panorama toscano, che, insieme ad ampie scorze di corteccia di sughero, a piccoli ruscelli, in carta stagnola ed a laghetti di specchi, completavano il presepe domestico o delle chiese più povere. Modesti doni portati dal Bambinello, quasi sempre dolciumi per i più piccoli, venivano posti alla base del presepe, quasi a simboleggiare l'innocenza. Un abete, con addobbi molto semplici, rispondenti all’antica tradizione nordica, frutta al posto delle insignificanti palle, fievoli e tremanti fiammelle delle candeline di cera al posto delle odierne sfavillanti e multicolori lampadine, allietava il soggiorno. Il prevalere, pertanto, della semplicità, del simbolismo e dell’atmosfera gioiosa e nello stesso tempo spirituale della Natività, sul materialismo della vita quotidiana. Poi venne il progresso, il boom economico, babbo Natale e la festa divenne occasione per dimostrare lo status symbol, il raggiunto benessere, i regali divennero costosi, appariscenti, quasi sempre inutili ed elargiti a tutti i conoscenti, col preciso scopo di farsi notare. Nei presepi comparvero le statuette di pregio, gli effetti luminosi speciali, gli alberi di natale furono addobbati riccamente, le tavole imbandite per novelli Pantagruel, in pratica un ritorno ai pagani saturnali, che, nell'antica Roma, si celebravano proprio in questo periodo. La vuota esteriorità prese, e continua ad avere, il sopravvento sul significato più profondo della Natività che è la redenzione dell’uomo.

domenica 13 dicembre 2009

Ave Maria