lunedì 11 maggio 2009

Solo i popoli perseguitati ed oppressi sono così buoni conduttori di dolore

Il male puro è cieco e sordo...
Questa l'impressione sgradevole e desolante davanti alla lettura delle prime pagine de "I quaranta giorni del Mussa Dagh" di Franz Werfel

Sembra qualcosa di incredibile... e il cuore e la ragione si ribellano... e faccio fatica a proseguire nella lettura. Ma la sorte degli Armeni massacrati ed eliminati dai Turchi all'inizio della prima guerra mondiale - mirabilmente narrata da un ebreo che ben conosce la persecuzione contro una razza - ha del demoniaco: si assiste al tremendo avanzare, silenzioso e traditore, del male.. è come la tela di un ragno velenosissimo che divora all'improvviso dopo il lento e paziente lavoro di tanto tempo.

Il problema all'inizio per i Giovani Turchi era quello di trovare un pretesto per accusare e deportare i fieri e pacifici Armeni, poi i pretesti non servono più: diventa una colpa semplicemente essere armeni e le deportazioni sono di un dolore indescrivibile.

Ma tornando all'episodio che mi ha sconvolto - si tratta dell'incontro tra il dottor Giovanni Lepsius, tedesco, che si rivolge a Enver Pascià, capo supremo dei Turchi, per perorare la causa degli Armeni (pp. 139 e ss) -, devo dire che ho fatto una scoperta: il puro male, quasi ingenuo e incosciente nella sua semplicità ha sempre lo stesso volto inquietante e pauroso. Come il volto di Weston in Perelandra di C. S. Lewis, come il volto di Don Rodrigo, che ha la sfrontatezza di chiedere a P. Cristoforo di mettere sotto la sua protezione Lucia ne "I promessi sposi".


C'è un altro passaggio doloroso del romanzo che riporto perché mi ha colpito: laddove uno dei personaggi, un Pastore protestante coraggioso e tenace, schiacciato dall'ingiusta oppressione del potere, si lascia sfuggire un brevissimo gemito. Gli astanti, davanti a quel lamento appena accennato si lasciano coinvolgere, anche se sono davanti ad un estraneo, proprio come soltanto un popolo - un vero popolo che ha un comune sentire -, riesce a fare:

"Il Pastore Aràm richiamò con uno sforzo il suo sguardo smarrito, balzò in piedi con forzata disinvoltura e tentò un sorriso tranquillante, come s enon fosse avvenuto nulla di speciale. Anche le donne si alzarono, ma entrambe con molto sforzo, poiché, se una aveva il braccio inservibile, l'altra era incinta. Solo la piccola nella casacca a righe rimase seduta, fissindo sospettosa i suoi compagni di sofferenze. Le esclamazioni violente, le domande e i gemiti del primo saluto non si poterono comprendere. Ma quando il pastore Aràm abbracciò il padre, la sua padronanza di sé per un momento cedette. La sua testa cadde sulla spalla del vecchio e si udì un breve singhiozzo, un rantolo roco e doloroso. Non durò un secondo. Le donne rimasero mute. Ma nella folla circostante si propopagò coem una scossa elettrica. Gemiti, singhiozzi e colpetti di tosse corsero tra le file. Solo i popoli perseguitati ed oppressi sono così buoni conduttori di dolore. Ciò che accade a uno acade a tutti. E lì davanti alla Chiesa di Yoghonolùk trecento paesani erano commossi da una sofferenza, di cui non conoscevano ancora la storia ("I quaranta giorni del Mussa Dagh" di Franz Werfel, pag. 95-96)

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