venerdì 8 marzo 2013

Associazione Culturale Felicita Merati


Nova Milanese: Piazza Marconi e Chiesa Sant'Antonino - da Verylemon.blogspot.com

Anche Nova Milanese (foto) ha la sua  santa Beretta Molla, è Felicita Merati, a nome della quale un gruppo di amici novesi ha intitolato l'associazione culturale che reca il suo nome: Associazione Culturale Felicita Merati. Di essa ne avevo sentito parlare per la prima volta nell'ottobre 2008, per l'occasione di un convegno in cui si sarebbe dibattuto di Sacralità della vita. 
 
Ma chi era Felicita Merati?

Donna dei nostri giorni, giovane moglie e già madre di un bambino, alla seconda gravidanza scopre di avere un tumore. Le s'impone subito il tragico dilemma: o lei, o il figlio. Consapevole del destino cui sarebbe andata incontro, decide di rinunciare a curarsi per consentire al figlio di venire alla luce. Alla nascita del figlio Felicita muore, consapevole però che il suo gesto eroico lascierà ai figli il più grande degli insegnamenti: l'amore grande che va oltre la vita.

All'avvento dell'Associazione, rimasi un po scettico nell'apprendere ruolo e finalità che si era data. La mia perplessità era derivata dal fatto che negli anni '80 e '90 molte associazioni culturali erano nate col solo scopo di lucrare i contributi statali e regionali a fondo perso loro concessi; spesso inutili contributi che hanno avuto un loro peso nella formazione del rilevante debito pubblico, causa prima dei mali che affliggono l'Italia. Ma la presenza in questa associazione di persone rette ed integerrime, oltre che intellettualmente colte, mi ha tolto ogni dubbio circa i loro reali obiettivi, e il proseguo delle loro attività me lo ha poi confermato. Ricordo ancora con piacere la bella mostra dedicata al mio beniamino Giovannino Guareschi, dal titolo Non muoio neanche se mi ammazzano - l'avventura umana di Giovannino Guareschi,


 allestita nel settembre 2010 nei locali di Villa Vertua Masolo di Nova Milanese (vedere anche qui: Alla riscoperta di Guareschi), e quella sui monaci benedettini 









(La città e l'Acropoli di Cassino), allestita nel settembre 2011 nella Sala Gio.I.A. di piazza Gio.I.A. a Nova Milanese,  dal titolo Alle radici dell'Europa - Con le nostre mani ma con la Tua forza, e quella più recente dedicata allo scrittore brianzolo Eugenio Corti, dal titolo Dalla Brianza al Mondo - Lo scrittore Eugenio Corti, per il quale è stato scritto il post Per la candidatura di Eugenio Corti al Nobel, in occasione della richiesta per la sua candidatura al Premio Nobel, lanciata dal giornale Il Cittadino.

Per domani, 9 marzo 2013, l'Associazione ha organizzato la visita guidata  Chiese di San Giovanni in Conca, San Nazaro e San Simpliciano di Milano. Quest'ultima, fondata da Sant'Ambrogio nel 382, e intitolata a San Simpliciano nel VII secolo, è particolarmente cara ai milanesi doc, non tanto, ma anche perchè conserva le vestigia del Carroccio, usato dai comuni della Lega Lombarda, coalizzatisi per lo scontro contro le forze di Federico Barbarossa nella Battaglia di Legnano.  

sabato 2 marzo 2013

Aldo Manuzio, il principe degli editori

 
Aldo Manuzio - da Wikipedia

Il Canal Grande attraversa la città di Venezia, passando in mezzo ai sestieri, tre per parte, e a circa metà percorso si restringe, vira bruscamente a destra per poi passare sotto il Ponte di Rialto. L'antico Ponte, così per come lo conosciamo nella sua forma attuale venne inaugurato nel 1591 (un ponte di legno, poi franato, esisteva già da prima), e fino al 1854 era stato l'unico ponte pedonale di collegamento tra le due parti di Venezia. A quella data, nel 1854, era entrato in funzione il secondo ponte, quello che adesso si chiama Ponte dell'Accademia. Fu a Rialto che, secondo la tradizione, nel 421 si insediarono i primi abitanti della futura città di Venezia. Rialto, a quell'epoca, era una semplice isoletta della vasta Laguna Veneta, scelta da quelle popolazioni perchè un pò più rialzata, e quindi un pò più salubre, rispetto alle numerose altre. Da lì potrebbe forse derivare il nome di Rialto. Nel "rione", diventato poi in un millennio il più popolato di Venezia, alla fine del Quattrocento, all'indomani dell'invenzione della stampa, vi sorsero tante tipografie, la cui concentrazione fù la più alta di tutte le tipografie d'Europa messe assieme, primato che mantenne per quasi un secolo.

Da giovane ho fatto il venditore di carta da stampa; miei clienti erano soprattutto alcune tipografie e alcuni piccoli editori di Milano. Avevamo un ispettore vendite che si recava spesso a visitare i clienti del Veneto, facendo tappa fissa a Venezia. Città nella quale andava ad alloggiare in un albergo nei pressi del Ponte di Rialto, lungo il Canal Grande; approfittava di quella "postazione" privilegiata, per unire l'utile al dilettevole. Durante le pause pranzo ammirava passare i vaporetti carichi di mercanzie (così li chiamava lui, vaporetti, e così li chiamo anch'io, per restare fedele al racconto, ma l'amico Fausto, della Alloggi Barbaria, nel post Pacchi a Venezia ce ne fornisce l'esatta definizione: a Venezia chiamano ""topi" le speciali imbarcazioni adibite al trasporto di merci in mezzo all'intricata ramificazione dei suoi oltre 200 canali), puntando gli occhi su quelli che trasportavano risme di carta. Dal colore degli impacchi era in grado di stabilire da quali cartiere provenissero, e in base al canale secondario che imboccavano capiva dove erano diretti. Di ritorno a Milano, immancabilmente ci raccontava del giro dei clienti di Venezia, e della possibilità unica di "perlustrazione" che gli forniva la città lagunare. Col venditore di zona, pranzando in quel ristorante nei pressi del Ponte di Rialto, con vista "privilegiata" sul Canal Grande, affinavano strategie di vendita. Alle loro spalle, nelle Calle delle Mercerie, c'era, e forse c'è ancora, qualche grossa tipografia, probabile erede "storica" di quelle "decine e decine di tipografie" che esistettero a Venezia nel XVI secolo, e situate in quella "strada" che andava da Rialto a Piazza San Marco, già allora conosciuta nel mondo col nome di Mercerie. "Nel secolo precedente, a partire dal 1469, in Venezia si alternarono 153 tipografie, che stamparono un totale di 4500 titoli, producendo in tutto 1.350.000 libri" (quindi una media di 300 copie a titolo). tutto questo andò a vantaggio della capillare diffusione della cultura tra i veneziani. In Germania, invece, dove pure fu inventata la stampa, fino a tutto il XVIII secolo la lettura resterà un privilegio riservato a pochi "fortunati" "Si calcola (infatti) che (in Germania) nel Settecento il pubblico dei lettori regolari si aggiri attorno all'1,5 % della popolazione totale (...) La Venezia cinquecentesca (quindi 200 anni prima che in Germania) tuttavia fa eccezione (anche in questo): un quarto della popolazione maschile tra i 6 e i 15 anni va a scuola, percentuali inarrivabili altrove e che spiegano l'interesse per i libri" (Giovanni Ragone, Classici dietro le quinte. Storie di libri ed editori. Da Dante a Pasolini, Laterza, Roma-Bari 2009, pag.43 - nota in calce a pag.16 del libro di Alessandro Marzo Magno, L'Alba dei Libri) .



 
Libro stampato e rilegato da Aldo Manuzio - da Wikipedia
(si noti bellezza ed eleganza)
All'epoca non sapevo ancora nulla del glorioso passato nel settore della stampa di Venezia, nè dei suoi numerosi primati mondiali in tale ambito (vedi post Mastro Martino), altrimenti mi sarei appassionato ai racconti del mio ispettore, tempestandolo di domande specifiche.
In questi giorni è in corso la Fiera del Libro di Francoforte, le cui origini risalgono al Cinquecento. Fu creata nell'epoca di cui scriviamo, per fare concorrenza alle Fiere del Libro che si svolgevano a Lione e a Venezia. Ma competere con Venezia in quel secolo, era battaglia persa: la distesa dei negozi del "rione" Mercerie, che vendevano libri, dava l'impressione di una   fiera aperta tutto l'anno. Cronache del tempo raccontano di turisti (che quindi già allora esistevano) che, transitando in qualunque mese a piedi da Rialto, per raggiungere Piazza San Marco, passando per Mercerie, già allora famose "strade" dello shopping internazionale, avevano smarrito l'orizzonte, frastornati dagli innumerevoli titoli di libri che s'eran fermati a leggere strada facendo.
In quel secolo Venezia ebbe il ruolo che attualmente detiene New York, primeggiava in molti campi; era il centro del mondo. Nel 1500 solo tre città europee superavano i 150.000 abitanti, Parigi, Napoli, ed appunto Venezia. Venezia era meta di gente proveniente da tutta l'area mediterranea, e oltre. Bastava avesse voglia di lavorare, e a Venezia poteva fare fortuna. Non a caso tipografie di Venezia furono aperte da tedeschi, greci, ebrei, armeni, croati, dalmati, ecc. La metà di tutti i libri stampati in Europa, nella prima metà del Cinquecento, provenivano da Venezia. Il made in Venice, nel settore libri, e non solo, fu nel mondo sinonimo di qualità eccellente. A far decretare tale primato contribuirono certamente uomini come Aldo Manuzio.
 
Aldo Manuzio non era nato a Venezia, era originario di quella che oggi è la provincia di Latina, che a quel tempo era parte integrante della provincia Terra di Lavoro. Località nomen omen, Aldo Manuzio aveva appreso il mestiere di stampatore tipografo da monaci laziali, dopo alcuni passaggi, ultraquarantenne si era poi trasferito a Venezia per impiantare là la propria azienda tipografica. Lavoratore indefesso, vulcanico nelle idee (basti pensare che dopo 500 anni moderne tipografie si avvalgono ancora delle sue "invenzioni"). Disdegnava i perditempo, e coloro che gliene facevano perdere, tanto che all'ingresso della sua "officina" si trovò costretto a dover esporre un cartello con la scritta: "Chiunque tu sia, Aldo ti chiede di esporre la tua questione in breve e di andartene quanto prima".  
 
Se il mio ispettore segugio di cui sopra, fosse vissuto cinquecento anni fa, per esempio intorno al 1512, e si fosse appostato nei pressi delle allora case dei Barbarigo (ricostruite e unificate anni dopo nell'attuale Palazzo Barbarigo) sarebbe stato in grado di tenere sott'occhio un andirivieni giornaliero di peàte  (imbarcazioni veneziane del tempo, adibite al trasporto di merci) vogate da barcaroli, dirette o provenienti dalla tipografia di Aldo Manuzio. Questa si trovava, ed è visibile tuttora, in Rio Terà Secondo, a due passi da  Campo Sant'Agostin. Dal Canal Grande si arriva alla casa di Aldo Manuzio accedendo al Rio di San Polo, che in quel punto costeggia il bel Palazzo Barbarigo della Terrazza, poco distante a sua volta da Casa Manuzio. Qui è d'obbligo ricordare che con un membro di tale famiglia, Pierfrancesco Barbarigo, editore anch'egli, e figlio del Doge in carica, Agostino Barbarigo, Aldo Manuzio  aveva dato vita ad una società editoriale, una fra le più grandi del periodo, e fors'anche in tutta Europa.






Casa/Tipografia di Aldo Manuzio, con relative insegne. Foto scattate il 13 ottobre 2012, in esclusiva per questo blog, da Fausto Maroder della Alloggi Barbaria
 
Non viene mai ricordato, ma Aldo Manuzio è stato il genio della stampa e dell'editoria, allo stesso modo come lo sono stati Raffaello per la pittura e Michelangelo per la scultura. A Manuzio si deve la "messa a punto" definitiva della punteggiatura nella stampa: virgola, punto, accento, apostrofo, usati per la prima volta nella sua tipografia nella loro forma attuale; ha inventato il punto  e virgola, nonchè l'introduzione della numerazione delle pagine su entrambi i lati (recto e verso). A lui si deve l'introduzione del corsivo nella stampa, che in suo onore gli anglosassoni hanno chiamato italics. E siccome in alcune opere soleva firmarsi Aldo Romano, in ricordo delle sue origini laziali, il carattere tondeggiante da lui creato (quello usato anche da questo blog), in suo onore è stato chiamato Roman dagli inglesi.   
 
Marchio Aldino - dal sito Giandri Altervista Org
 
Nei quasi 20 anni di attività a Venezia, Aldo Manuzio pubblicò 132 libri. Pubblicò pure quello che è stato unanimemente considerato il più bel libro stampato del Rinascimento, il "discusso" Hypnerotomachia Poliphili, del 1499 (visibile on-line cliccando qui). "Discusso" perchè fuori dai suoi canoni di produzione; una sorta di "amor profano" per lui che invece aveva quella sorta di"amor sacro" nel divulgare nel mondo la conoscenza di opere "monumentali", i classici latini (Virgilio, ...), greci (Omero,...) e i padri della lingua italiana: Dante, Petrarca, Boccaccio. Il Canzoniere di Francesco Petrarca fu la sua opera più richiesta; si stima che ne stampò più di 100.000 copie. Insomma, una quantità di libri e di tirature notevoli, mastodontica se si pensa che i fogli di stampa venivano "tirati" uno per uno con la forza muscolare sotto i torchi, e che in quell'epoca le tipogafie dovevano lavorare per gran parte del tempo dell'anno a lume di candele (in particolar modo l'inverno).
 
Concludendo, rimane indiscutibile un fatto: grazie ai libri da lui stampati, Aldo Manuzio ha fatto giungere fino a noi l'italiano così per come lo conosciamo; e anche in ciò risiederebbe la sua grandezza
 
Aldo Manuzio, nato a Bassiano (Latina) nel 1449, morì a Venezia il 6 febbraio 1515. Aveva 66 anni.     



Al minuto 3 è visibile la casa veneziana di Aldo Manuzio

Bibliografia: Alessandro Marzo Magno, L'alba dei libri

Dal Diario del 15 ottobre 2012 - seguirà la storia della "dinastia" dei Remondini di Bassano del Grappa, ovvero su come creare 1000 posti di lavoro da un'idea semplice, oserei dire semplissima,  oggi al limite del banale, legata al mondo della stampa.

giovedì 7 febbraio 2013

I laghetti di Milano

Laghetto di San Marco, Milano 1930 - dal sito Vecchia Milano

Nonostante sia posta nel mezzo di tanti corsi d'acqua, Milano, la romana Mediolanum, gode, e ancor più lo godeva nell'antichità, di estati relativamente torride. Lo seppero bene i primi cristiani milanesi, che, dove ora c'è il Duomo, edificarono due chiese, una per le funzioni invernali, l'altra per quelle estive. E lo constatò ancor più la Regina Teodolinda, quando convinse il marito a trasferire a Monza la capitale estiva del Regno Longobardo.

Secoli dopo nacque l'idea di portare a Milano acqua fresca dal Ticino, soprattutto per scopi irrigui. Nacquero così i primi canali, che nel corso del tempo furono resi navigabili, a cominciare dal Naviglio Grande. Questo terminava la sua corsa nel Laghetto di Sant'Eustorgio (ora Darsena). In seguito vennero costruiti i canali interni alla città, divenuti a loro volta canali navigabili: i Navigli Interni. Sul suo tragitto verrà in seguito creato il Laghetto di Santo Stefano, utilizzato principalmente come scalo merci per i barconi provenienti dal Lago Maggiore, che trasportavano sabbia, marmo e gran parte del materiale necessario per la costruzione del Duomo di Milano.

Nel 1288, Bonvesin de la Riva, dotto frate degli Umiliati, così ebbe a scrivere della Milano del suo tempo:
 
"Un fossato di sorprendente bellezza e larghezza" circonda questa città da ogni parte, e contiene non una palude o uno stagno putrido, ma l'acqua viva delle fonti, popolata di pesci e di gamberi. Esso corre tra un terrapieno all'interno e un mirabile muro all'esterno, il cui circuito, misurato con estrema accuratezza, è risultato corrispondere a diecimilacentoquarantuno cubiti. La larghezza del fossato, lungo l'intero circuito intorno alla città, è di trentotto cubiti. Al di là del muro del fossato vi sono abitazioni suburbane tanto numerose che basterebbero da sole a formare una città".

Collegio Elvetico, nei pressi del laghetto di Santo Stefano. Veduta Settecentesca di Milano, di Marc'Antonio Dal Re.

Il  Laghetto di Santo Stefano non esiste più, come pure non esiste più il Laghetto di  San Marco(foto in alto). Questi, il più longevo, è esistito a Milano, nell'omonima via, fino al 1930, quando venne interrato. Era stato pensato in epoca viscontea, per risolvere i problemi creati  dagli allagamenti: al perdurare di forti acquazzoni i navigli interni si gonfiavano, straripavano, lasciando nel fango la città. A quell'epoca la zona di via San Marco, confinante a nord del Naviglio Interno, era un terreno totalmente agricolo, dislocato fuori dalla cerchia dei Navigli, che all'epoca delimitavano il centro abitato dalla zona agricola. Quel terreno si prestava quindi assai bene per crearvi quella che oggi chiameremmo cassa di espansione. Per quel precipuo scopo era nato il laghetto, un ruolo che ha svolto egregiamente per almeno cinque secoli. Dal 1876, e per molti decenni, ebbe anche funzione di scalo per i barconi che tasportavano le bobine di carta alla tipografia del Corriere della Sera, (l'edificio, tuttora esistente, è quello che si vede di fronte, in primo piano, nella foto in alto).  Quella  sotto è invece la foto di uno di quei barconi mentre entra in via Fatebenefratelli, e raggiungerà il laghetto di San Marco per le operazioni di scarico (da Wikipedia) .


****************************************


1920 - E' come se si aprisse un mare. "Lavori in corso per la nuova Darsena di Milano con ingresso dalla conca di Viarenna. Gli antichi bastioni spagnoli sono stati completamente abbattuti" (da Wikipedia).

Post correlati:
Teodolinda Regina dei Longobardi 
- Il Mulino del Po

Bibliografia:
- http://www.cuoredimilano.org/ita.html: nelle foto dalla n. 2 alla n. 9  via San Marco, laghetto di San Marco e via Fatebenefratelli, prima dell'interramento (1930 - 1950 circa).  

Dal Diario del 18 giugno 2012

mercoledì 30 gennaio 2013

Sofonisba Anguissola la signora dei ritratti

Anton Van Dyck, giovane ma emergente talento della pittura fiamminga, arrivato a Palermo su invito del vicerè, chiede udienza a una pittrice ultranovantenne dalla fama leggendaria, Sofonisba Anguissola.

E' l'introduzione del libro di Daniela Pizzagalli: La signora della pittura.

Ai tempi di Sofonisba (1532 - 1625) spostarsi era disagevole, oltre che molto pericoloso: il mar Tirreno, che lei ebbe a solcare più volte per recarsi in Spagna, per poi trasferirsi a Palermo, quindi a Pisa e a Genova, era infestato da pirati e saraceni. Ma di lei, pittrice ritrattista tra le più acclamate del tempo, che ha lasciato tracce di vita in quelle località, oggi se n'è quasi persa la memoria. Come si vedrà, era in grado di rivaleggiare alla pari con i più celebrati ritrattisti delle corti reali.
Era nata a Cremona, seconda città del Ducato di Milano per ricchezza e popolazione, e anche lì, come nel resto della Penisola, era in pieno fervore lo spirito rinnovatore del Rinascimento. Suo padre, il nobile decaduto Amilcare Anguissola, faceva parte della corporazione dei fabbricieri del Duomo e del complesso abbaziale della Chiesa di San Sigismondo, la quale aveva preso il posto della preesistente Cappella nella quale furono celebrate le nozze tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza nel 1441 (vedi post Bianca Maria Visconti). All'epoca della prima adolescenza di Sofonisba, nel 1545, oltre 60 pittori erano costantemente all'opera per affrescare gli interni della Chiesa, e suo padre la portava quasi sempre con se nei suoi giri d'ispezionamento dei lavori. E fu così che, intrattenendosi a parlare di arte con loro, Sofonisba acquisì la passione per la pittura, apprendendone i primi rudimenti. Manifestata la sua passione, il padre la mandò così a scuola di pittura presso l'abitazione laboratorio di Bernardino Campi (nella foto qui a lato, assieme alla giovane Sofonisba, ritratti dalla stessa, quindi autoritratto nel ritratto). La sua consacrazione a celebrità avvenne in seguito ad una visita di Giorgio Vasari a casa Anguissola, che rimase stupefatto dalla perfezione di un quadro della ragazza: un affettuoso ritratto di famiglia (foto sotto), con al centro il padre e di lato Minerva, una delle sue cinque sorelle, e il fratello Asdrubale, il più piccolo dei sette. Alla sua consacrazione di eccellente ritrattista ha contribuito anche l'inventiva promozionale del padre. Per tale scopo mandò anche a Michelangelo un plico di disegni fatti dalla figlia, affinchè li esaminasse e desse una sua autorevole opinione: ne fu ben impressionato al punto che uno di quei disegni finì anni dopo nelle mani di uno dei soggetti di quei disegni: Cosimo I de' Medici.
Diventata celebre, Amilcare Anguissola allargò gli orizzonti della sua "iniziativa" promozionale, finchè vennero a conoscenza di sua figlia alla Corte Spagnola, e la richiesero per insegnare pittura alla giovane moglie di Filippo II, che aveva espresso il desiderio d'imparare a disegnare e dipingere. Filippo II, prossimo alle terze nozze, era subentrato al padre Carlo V, che aveva abdicato per passare il resto dei suoi giorni chiuso in un monastero. Dalla prima moglie, Maria di Portogallo, aveva avuto un figlio, Carlo, candidato per essere il futuro re di Spagna, ciò che invece non si realizzò.

Sofonisba partì da Cremona forse alla fine dell'inverno del 1558-59, quando a Milano si stava festeggiando un grandioso carnevale, ampiamente acclamato dalle cronache del tempo, voluto dal nuovo governatore spagnolo per celebrare la sua fresca nomina. L'Anguissola forse non immaginava che nella sua città natia non vi avrebbe più fatto ritorno. Fece così tappa nella città dei Navigli, ospite del governatore duca di Sessa. Il Palazzo ducale sorgeva a fianco del Duomo, nel cuore pulsante della città. Entrando nella quale, sicuramente da Porta Romana, si sarà stupita alla vista della maestose Mura Spagnole, la più grande opera civile realizzata in Europa nel XVI secolo, alla quale stavano dando i ritocchi finali. Nella capitale del Ducato si fermò poco, forse per qualche mese, e nel periodo più esaltante della fase conclusiva del Rinascimento milanese.

L'aspetto complessivo di Milano si era consolidato nelle sue connotazioni attuali fin da quando, nel 1546, fu nominato governatore Ferrante Gonzaga, figlio di Isabella d'Este, la gentildonna più celebre del Rinascimento.
Nei 18 anni della sua permanenza a Milano, 1482-1500, Leonardo da Vinci aveva lasciato impronte idelebili del suo passaggio in capolavori artistici e in somme opere di ingegneria civile e militare. Abbozzi, disegni, progetti di esse si trovano nelle TAVOLE DI LEONARDO DA VINCI che Francesco Melzi aveva ereditato in Francia da Leonardo, e riportate in Italia, a Milano. A quelle tavole fu molto interessata anche Sofonisba "che proprio dai disegni leonardeschi teorizzò quel naturalismo, quella registrazione degli aspetti più quotidiani della realtà, così vicini all'estetica dell'Anguissola" che si riscontrano nelle sue opere. Una conferma della sua capacità di riprodurre nei quadri l'introspezione psicologica cui sottoponeva i personaggi dei suoi ritratti, la vedremo due anni dopo, quando, nel 1561, Sofonisba farà dono a Papa Pio IV di un suo quadro, ricevendone entusiastici complimenti. Il papa milanese, fratello di Gian Giacomo De Medici, detto Il Medeghino e zio di San Carlo Borromeo, era salito al soglio pontificio nel 1559, anno della sua permanenza nella capitale del Ducato, e , sempre in quell'anno, Carlo Borromeo era diventato arcivescovo di Milano. Quando ciò avveniva, Sofonisba era già in Spagna: era il dicembre del 1559. Imbarcatasi a Genova, o forse a Savona, dopo 8 giorni di navigazione Sofonisba e il suo seguito giunsero nel porto di Barcellona; da lì presero la strada alla volta dell'interno della Spagna. Madrid, scelta in quegli anni a capitale del regno da Filippo II, in alternativa alla più blasonata Toledo, non era ancora pronta per accogliere la nuova Regina che sarebbe arrivata da lì a poco da Parigi, col suo numeroso seguito. Sarebbe stata nel frattempo accolta a Guadalajara, dove si diresse anche il gruppetto di Sofonisba.
La nuova regina, Isabella (foto), o Elisabetta di Valois, figlia di Enrico II di Francia, e Caterina de Medici, in un primo tempo era stata designata quale moglie per Carlo, suo coetaneo e figlio di Filippo II, avuto dalla prima moglie, Maria di Portogallo. Secondo quel progetto iniziale Filippo II avrebbe quindi dovuto diventare suocero e non marito di Isabella, ma quel piano era totalmente svanito quando Carlo aveva dato chiari segni di squilibrio. E quando re Filippo rimase vedovo per la seconda volta, decise di sposare lui la giovane Isabella (che alla partenza da Parigi aveva solo 13 anni), per questioni politiche e per assicurarsi una prole più sana. Carlo per non diventare di pericolo a qualcuno, fu poi rinchiuso in una prigione da suo padre, nella quale il giovane si lasciò morire d'inedia.

(segue)
Il dramma di Carlo, Isabella e Filippo è ben descritto nell'opera di Verdi, Don Carlo.
Qui la prima parte dell'opera, col tenore Salvatore Licitra nella parte di Carlo, nella rappresentazione del 25 ottobre 2010 presso la Los Angeles Opera. Ma l'aria più bella, secondo i miei gusti, è "Ella giammai m'amò", nella quale re Filippo II confesserà di non essere mai stato amato da Isabella. L'aria qui riproposta è interpretata dal basso Ferruccio Furlanetto, lo stesso che ha cantato a Los Angeles in coppia con Licitra, ma nella versione scaligera del 7 dicembre 2008.

Post correlati
L'Italia da salvare e da preservare (top post)
Navigli amore mio
La memoria storica dei Navigli a Milano e dintorni
Milano in gondola
Naviglio, cuore di Milano (nella foto n.14 si può vedere com'era il ponte di Porta Romana)
Bibliografia: La Signora della Pittura, di Daniela Pizzagalli -Rizzoli

Dal Diario del 22 marzo 2011

domenica 27 gennaio 2013

Veronica Gàmbara


Nota introduttiva

Data la complessità dell'argomento, per questione di brevità ho dovuto operare parecchi tagli; l'alternativa sarebbe invece stata quella di pubblicare il post in almeno tre volte. Ho così appena accennato ad argomenti basilari per la comprensione della trattazione; ad esempio, come alle amicizie con Pietro Bembo, Vittoria Colonna, Bernardo Tasso, Isabella d'Este; o gl'incontri folgoranti con lo statuario Francesco I, e il carismatico Carlo V, o la corrispondenza intrattenuta con i vari pontefici dell'epoca. Dell'incontro con Ludovico Ariosto ne ho accennato in questo post. Trascuro addirittura degli scambi punzecchianti avuti con Pietro Aretino; punzecchiato e domato a sua volta dalla Gàmbara. Del ciclo conclusivo della Poetessa, quello della religione, e dell'abbandonarsi alla fede cattolica, pubblico soltanto una poesia in conclusione di post: data l'abbondanza e complessità di avvenimenti storici di quel periodo, è mia intenzione tornare sull'argomento.
-----------
In un tempo in cui il poetare era prerogativa solo maschile, e riservata ai nobili, la contessa di Correggio e la marchesa di Pescara, in quanto donne, furono due notevoli eccezioni. Quasi coetanee, Veronica Gàmbara era nata nel 1485, Vittoria Colonna nel 1490, ebbero del matrimonio esperienze totalmente diverse, i cui sentimenti riversarono fulgidamente in poesia: per la contessa un'esperienza esaltante e felice, per la marchesa travagliata e tormentosa.

La Gàmbara, cresciuta in un ambiente stimolante per un letterato, cominciò a comporre versi fin da bambina, arte che poi, crescendo, le tornò anche utile.

In età matura, facendo leva sui versi e su lettere dall'impostazione poetica, ha cercato, per mezzo di essa, di dirimere anche dissidi esterni al regno, che si trovò a dover governare. Anche se lei non scrisse mai con l'intenzione di vedersi poi pubblicare le proprie lettere private, gli altri, secondo una prassi comune del tempo, corrispondevano in maniera pomposa e ricercata, col preciso scopo che poi la loro corrispondenza privata sarebbe diventata oggetto di stampa. Appena ebbe le redini di Correggio, nel mentre sulle acque del Lario, a Musso, in Brianza e in tutto il Milanese si svolgevano le vicende anche sanguinarie legate al Medeghino, qui raccontate, e la Romagna era appena stata scossa dalle imperiose gesta del Valentino, nel piccolo regno di Correggio, posto nel mezzo dei due, la contessa Gàmbara governava la piccola contea in maniera totalmente diversa che non a quei due, con blando uso di armi, o forza. Infatti, durante i 32 anni di suo governo, nella contea fu registrata una sola condanna capitale, e si ricorda di un ricorso alla forza ed alle armi nel 1526 quando, per difendersi dall'aggressione di ottocento fanti, comandati da Fabrizio Maramaldo, fu necessario mobilitare tutti i cittadini, invitandoli ad imbracciare le armi. Gli ottocento fanti furono poi cacciati, ma lasciarono comunque dietro di se morte, fame, desolazione e pestilenza.

Veronica Gàmbara era di indole pigra, le piaceva la buona tavola, ed era pingue di corporatura; sarà stato anche per questo che aveva avuto una certa difficoltà a maritarsi, tanto che dovette intervenire sua madre, che chiese aiuto in tal senso alla propria famiglia d'origine, i Pio di Carpi. E sarà stato forse anche per la sua pinguedine che di lei non c'è alcun ritratto, nonostante Antonio Allegri, detto il Correggio, fosse il pittore ufficiale di casa Gàmbara. Aveva ventiquattro anni, e fu un gran sollievo per i suoi, quando si celebrarono le nozze, dapprima per procura, col quasi cinquantenne Giberto X da Correggio. Questi era anche il
vedovo di Violante dei Pico della Mirandola, dalla quale aveva avuto due figlie e, come detto, era anche imparentato con la sposa per parte della madre di lei, Alda dei Pio di Carpi. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, per via della forte differenza d'età, per Veronica fu la svolta della vita, e la felicità, anche se di breve durata; rimase infatti vedova dopo nemmeno dieci anni di matrimonio. Ciò non di meno il loro fu un matrimonio stabile e reso felice dalla nascita di due figli, che sarebbero potuti diventare di più, se un intervento chirurgico, resosi necessario per salvarle la vita, la privò del piacere di diventare madre ancora. Al contrario dell'amica Vittoria Colonna, infelice per quel marito giovane e forte, ma sempre in giro per il mondo in cerca di battaglie e di femmine, il marito di Veronica, ormai non più giovane nè forte, aveva deposto le armi ed aveva dedicato alla moglie ed alla prole il resto dei suoi anni. Il matrimonio per procura, senza che i due non si erano forse mai visti prima, era avvenuto il 6 ottobre 1518, una ricorrenza che la poetessa ricorderà sempre, anche e soprattutto nei 32 anni di vedovanza. Veronica era rimasta abbagliata dal di lui aspetto al primo vederlo, tanto che in seguito scrisse "di bellezza adone / cede al suo paragone". Dello stesso tenore di questi versi è il seguente struggente brano, che, presumibilmente, compose nel periodo dell'avvenuto matrimonio per procura, quando forse non si erano ancora visti.

Poscia che 'l mio destin fermo e fatale
Vuol pur ch'io v'ami e che per voi sospiri,
Quella pietà nel petto Amor v'ispiri
Che conviene al mio duol grave e mortale

E faccia che 'l voler vostro sia eguale
A gli amorosi ardenti miei desiri;
Poi cresca quanto vuol doglia e martìri
Che più d'ogn'altro ben dolce sia 'l male.

E se tal grazia impetro, almo mio sole,
Nessun più lieto e glorioso stato
Diede amor o Fortuna al mondo mai.

E quanti per addietro affanni e guai
Patito ha il cor, ond'ei si dolse e duole,
Chiamerà dolci, e lui sempre beato.

Nella primavera del 1509, gli sposi sono a Napoli, dove, nella Cattedrale di Amalfi, celebreranno il rito nuziale religioso. In occasione di quel viaggio Veronica ebbe modo di rivedere l'amico Bernardo Tasso, futuro padre del celebre Torquato, conosciuto quand'egli era a Ferrara, al servizio degli Estensi. Con lui, da giovani, c'era stato un fitto scambio di missive in gergo e in versi poetici. Per ragioni di lavoro, come diremmo oggi, Bernardo s'era trasferito a Salerno.
Come il Tasso, anche Pietro Bembo che era, e che sarà ancora, dopo la vedovanza, il mentore prediletto di Veronica, negli anni del felice matrimonio verrà messo un pò in disparte.

In quel periodo storico era di moda motteggiare ad imitazione del Petrarca, ma farlo non era da tutti, e soprattutto era prerogativa esclusivamente maschile: alle donne era riservato l'accudimento familiare. Veronica Gàmbara e Vittoria Colonna ruppero però quel tabù.
Nel 1509 Veronica aveva lasciato il paese natale nel bresciano alla volta dell'Emilia. Si era sposata per procura nell'ottobre precedente con il conte Giberto X, signore del piccolo regno di Correggio .

Di quel periodo sono state ritrovate solo poesie dedicate al marito, e di questo genere: "le parole / Dolci ad udir del suo bel foco ardente".
Pare anche che nel frattempo si fosse dimenticata perfino degli amici più cari, del Bembo, in particolare. Il 26 agosto 1518 conte Giberto moriva e Veronica, facile supporre al culmine della disperazione, scriverà:
Quel nodo in cui la mia beata sorte,
Per ordine del ciel, legommi e strinse,
Con grave mio dolor sciolse e discinse
Quella crudel che 'l mondo chiama morte.

E fu l'affanno sì gravoso e forte,
Che tutti i miei piaceri a un tratto estinse;
E se non che ragione alfin pur vinse,
Fatto avrei mie giornate e brevi e corte.

Ma tema sol di non andare in parte
Troppo lontana a quella ove il bel viso
Risplende sovra ogni lucente stella,

Mitigato ha il dolor, che ingegno od arte
Far nol potea, sperando in paradiso
L'alma vedere oltra le belle bella.

Restò così vedova all'età di 33 anni, non si risposò più, e mantenne il lutto totale per il resto della vita. Del suo corpo faceva vedere solo il viso. Fece perfin dipingere di nero la carrozza, facendola trainare solo da cavalli neri o morelli; anche la stanza e il letto fece addobbare di nero listato per sempre a lutto. Nei primi tempi di vedovanza, è probabile avesse anche meditato al suicidio, ma forse fu il pensiero dei due figli ancora in tenera età a distoglierla dalla turpe idea. E fu così che aspettando la loro maggiore età, prese in mano le redini del piccolo regno, assolvendo al compito con inusuale determinazione e maestria, per una donna di quei tempi. Le vicissitudini della vita, portarono poi i figli ad occuparsi di tutt'altro, diventando il maggiore un condottiero, e il minore un cardinale. Toccò così a Veronica di governare il Regno per gli oltre trent'anni in cui visse. E fu così che gli anni dal 1519 al 1532 li dedicò gran parte alla politica, ed estera in particolare. Scriveva in prosa, o motteggiando, a Francesco I e a Carlo V. Di Francesco I ammirava l'aspetto statuario, di Carlo V invece il grande carisma. L'ammirazione reciproca tra la contessa di Correggio e l'Imperatore fu tale che questi, nelle sue tre venute a Bologna, per ben due volte volle passare da Correggio, ospitato con tutti gli onori dai cittadini e da casa Gàmbara.

Componeva motti e sonetti e lettere per tutti; molte andate perse, ma parecchie ci sono pervenute, fornendoci tra l'altro preziose testimonianze sulle abitudini e modi di vivere del tempo, e una ricca testimonianza sull'evoluzione della nostra lingua che andava pian piano sganciandosi dal latino negli scritti di ufficialità. La grande stima e soggezione che aveva per Carlo V la trasferì in un sonetto che compose nel 1526, all'indomani della pace di Madrid siglata tra i due re. Con quel trattato di pace, Veronica si era illusa che, finalmente, si sarebbe giunti alla pace universale tanto agognata da tutti. Questo il sonetto:

Vincere i cor più saggi e i Re più alteri,
Legar con l'arme e scioglier con la pace,
Dargli e tor libertà quando a voi piace,
Esser dolce agli umili, acerbo ai fieri;

Che pajan falsi appo de' vostri veri
Gli onori altrui; che di virtù la face
Viva si accesa in voi, che ancor vi spiace
De l'error l'ombra e del vizio i pensieri;

Nasce, Signor, da unir la salda mente
Con l'eterno voler; far poca stima,
Che ceda al suo valor l'empia fortuna.

Onde sarà la gloria vostra prima
In terra, e l'alma il ciel sovra ciascuna,
Quella d'onor, questa d'amore ardente.

Nel luglio del 1532, tornando Verola in possesso della sua famiglia d'origine, fece un viaggio di ritorno al paese natio. Vi mancava da più di vent'anni e l'impressione unita a commozione fu tale, che compose la seguente poesia in suo onore, di chiara intonazione petrarchesca:

Con quel caldo desio che nascer suole
Nel petto di chi torna, amando, assente
Gli occhi vaghi a vedere, e le parole
Dolci ad udir del suo bel foco ardente,
Con quel, proprio voi, piagge al mondo sole,
Fresc'acque, ameni colli, e te, possente
Più d'altra ch'l sol miri andando intorno,
Bella e lieta cittade, a veder torno.

Salve, mia cara Patria, e tu, felice,
Tanto amato dal ciel, ricco paese,
Che a guisa di leggiadra alma fenice,
Mostri l'alto valor chiaro e palese;
Natura, a te sol madre e pia nutrice,
Ha fatto a gli altri mille gravi offese,
Spogliandoli di quanto avean di buono
Per farne a te cortese e largo dono.
In "Fresc'acque, ameni colli" si scorge chiaramente l'influsso del Chiare, fresche et dolci acque.
Da lì in poi, e quindi dal 1532 al 1540, si dedicherà alla poesia impegnata, quasi aborrendo i frivoli versi scritti nell'età giovanile. Nel sonetto che segue descrive infatti tutto il rammarico e disappunto per essersi persa in gioventù in quelle "sciocche rime". Ed è chiaro il riferimento a quando scriveva mottetti per il buffone Baron, di corte Gonzaga, o le canzonette per Isabella d'Este in Gonzaga, che da giovane si dilettava in canzonette, e prediligeva i versi composti da Veronica. Insomma, da quel 1532 la Poesia per Veronica Gàmbara è diventata una cosa molto seria, e scriverà, tra le sue innumerevoli composizioni:

Mentre da vaghi e giovenil pensieri
Fui nodrita, or temendo, ora sperando,
Piangendo or trista, ed or lieta cantando,
Da desir combattuta or falsi, or veri,
Con accenti sfogai pietosi, e seri I concetti del cor, che spesso amando
Il suo male assai più che 'l ben cercando,
Consumava dogliosa i giorni interi.

Or che d'altri pensieri, e d'altre voglie
Pasco la mente, a le già care rime
Ho posto, ed a lo stil, silenzio eterno.

E se allor vaneggiando, a quelle prime
Sciocchezze intesi, ora il pentirmi toglie
Palesando la colpa, il duolo interno.

Nella parte conclusiva della sua vita (1540-1550) c'è da rilevare l'abbandonarsi di Veronica alla religione. Questo è quel periodo, accennato all'introduzione, sul quale torneremo. Qui trascrivo solamente un suo significativo sonetto:
Ite, pensier fallaci, e vana speme,
Ciechi ingordi desiri, accese voglie;
Ite, sospiri ardenti, acerbe doglie,
Compagni sempre a le mie eterne pene;

Ite, memorie dolci, aspre catene
Al cor che pur da voi or si discioglie,
E 'l fren de la ragion tutto raccoglie,
Smarrito un tempo, e 'n libertà ne viene.

E tu, povr'alma in tanti affanni involta,
Slegati omai, e al tuo Signor divino
Leggiadramente i tuoi pensier rivolta;

Sforza animosamente il fier destino,
E i lacci rompi; e poi leggiera e sciolta
Rivolgi i passi a un più sicur cammino.
Nonostante, come detto, Il Correggio sia stato il pittore ufficiale di corte Gàmbara, pare non vi sia di Veronica alcun ritratto. Si ha soltanto notizia certa di un quadro da lei commissionato all'Allegri, che doveva rappresentare una Maddalena nel deserto; ma esso è andato disperso.
Bibliografia: La Signora della Poesia, di Daniela Pizzagalli, Editore Rizzoli, 2004.
Immagini - dall'alto: Ritratto di dama; Correggio (1517-1518), da Wikipedia
Francesco I di Francia - 1525 circa - da Wikipedia
Carlo V - da Wikipedia
Ulteriori fonti d'informazione: Cristinacampo.it

Cliccando qui, si accede alle Rime di Veronica Gambara, tramite il sito Letteratura Italiana.

Dal Diario del 15 novembre 2010